Un attentato non è una borsetta

Un attentato non è una borsetta
in via d’esplosione sulla metro.
Molti stanno tra la finestra e il divano, vicino all’impianto stereo.
Il masochismo è la pubblicità d’un cosmetico,
serve a pubblicizzare ogni difetto,
è quella canzone di cui tutti sanno le parole
e di cui nessuno ricorda l’autore,
un verme che non è solitario,
una bomba ad orologeria conficcata
tra l’autostima e la dignità.
Annichilirsi è facile e veloce:
per cadere a pezzi in rate mensili
non serve neanche un contratto!

La maggior parte delle minacce terroristiche
non hanno uno straccio di comunicato.
Sono nelle maniche lunghe, nei pantaloni larghi,
nei desideri che nessuno prende per il collo
nel respiro corto, negli occhi stanchi,
nei soldi irreperibili,
nel disimpegno in amore e in lotta,
nei pacchetti di sigarette, nell’insonnia
nelle sessioni di terapia, gli psicofarmaci,
le periferie bastarde dell’impero,
nei messaggi alle quattro del mattino.
I lampioni dei parchi sono segnali di fumo
per l’armata dei disgraziati.

Ma come si conduce una caccia al kamikaze?
Si reclutano legami. Ogni truppa è composta di un numero imprecisato
di persone che non sanno d’essere indispensabili.
Questa guerra prevede l’uso della forza.
Non quella di un muscolo che si flette avanti
per spaccarmi un sopracciglio.
Non quella dei moduli e dei manganelli.
E cos’è? una rosa che nasce dal diserbante,
la scintilla di un accendino
che viene dalla vulnerabilità:
un gas speciale che infervora le fiamme
quando uno si permette di soffrire.