Cyborg, robot ed altri conflitti di corpi e tecnica
hanno spesso la mia adorazione, perché, in fondo, lo sono anch’io
altrimenti non saprei spiegarmi
com’è che mi ossido così facilmente e velocemente
che tutte le mie magliette nere – cioè tutto il mio armadio,
si ricoprono di scaglie che si fanno corazza:
una meraviglia di esoscheletro più o meno albino
realizzato saldando imbarazzo e patologia autoimmune.
Ho una strana configurazione che mi consente di interagire
soltanto con qualcosa di programmabile,
fatta eccezione per impegni e felini;
eseguo soltanto ordini precisi, stupido come un computer
ma solo quando mi va, furbo come un anarchico.
Con questo mio contenitore di metallo rosa chiaro
posso viaggiare pensare urlare creare,
dare e ricevere orgasmi, prendere il mio pianeta a schiaffi
e costruire navicelle spaziali, per raggiungerne uno
dove sarò il risultato di rapporti di ri/produzione
fatti di solo affetto sessuato senza biopolitica spicciola,
dove gli appuntamenti al buio tra me e la mia (r)esistenza
non mi ricoprano di psicosomatismi da stress,
ma di rossetto e lotta di classe.
Purché sia con stile.