I nomi delle cose

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Questo è il manifesto per la trasmissione femminista e lesbica “I nomi delle cose”, trasmessa ogni mercoledì alle 20.00  su Radio Ondarossa, subito dopo il giornale radio. Enjoy!

 

My little femminicidio. Ovvero del perché ne ho abbastanza e vorrei si tornasse a parlare di violenza di genere

Ovunque, sono ovunque, escono dalle fottute pareti. Sono le  paladine e i paladini della tutela, che secondo loro ‘ste donne son così dementi che non ce la fanno proprio a difendersi da sole.
Sappilo milady: sono qui a protezione del  sacro femminino, e sappilo che sei così speciale, ma così speciale, così donna, creatura fragile come il soprammobile di porcellana preso al mercatino,  che se ti azzardi a fare un passo oltre il recinto di ciò che decido, ti polverizzo. Ehi, io sono per la libertà delle donne, non fraintendermi. Vorrai mica trombare senza la sovradeterminazione dei tuoi che ti frullano il moroso fuori dalla finestra? E che cazzo, pretendi davvero troppo. La penetrazione è un atto intrinsecamente patriarcale, ti deve fare schifo. Se a te piace, non importa: MammaMatriarca™ è qui e sa cosa è bene per te  e togliti le dita dal naso e dalla clitoride, sei una signorina e questo non si fa.

Premetto un paio di ovvietà: il patriarcato non sarà sparito magicamente quando mi sveglierò domattina, e nel perseguire la nostra bella società strafiga del sol dell’avvenire insomma, c’è ben poco da fare purismo ideologico per amor del purismo ideologico. Mezzi e fini devono essere coerenti, ma le contraddizioni esistono e senza stravolgimenti sistemici difficilmente smetteranno di esistere. Finchè c’è una magistratura, avrò bisogno dell’avvocato per rimuovere le mie chiappe da guai giudiziari; e finché c’é violenza sulle donne e non ci sono alternative migliori, io stessò farò del mio meglio per fornire a chi ne ha bisogno tutti i dati possibili sulle strutture già esistenti in grado di offrire un minimo di supporto. Soltanto una persona del tutto scema potrebbe vedere in ciò un acritico appoggio dello status quo. Il problema nei fatti è un altro: e cioè che può diventarlo.

Ed eccoci qui. Il femminicidio come parola è ormai abbastanza sdoganato. Femminicidio qui e femminicidio lì, e femminicidio giù, femminicidio, femminicidio, femminicidio. Ora basta.  Il femminicidio non esiste, e non intendo certamente dire che non esiste il fenomeno che quella parola intende rappresentare, più o meno. E’ la parola che è del tutto priva di senso.Mi disturba molto l’accostamento del concetto di femminicidio e di violenza di genere perché, per me, sono tutto fuorché la stessa cosa.  Intendiamoci: non sto certo a criminalizzare ogni bocca dalla quale esce questa parola, visto che qui su Femminismo a Sud è da prima del 2010 che se ne parla, di femminicidi. Molto prima che la questione diventasse materie per autoassolutorie targhe a memoria delle donne uccise.

E no, gli uomini non nascono stronzi: apprendono ad esserlo. Brutto colpo, giustizialist* d’assalto che sul corpo delle donne volete campare, nevvero? ma è così. O volete forse dire che se acciuffi uno stupratore, lo castri, lo ammazzi e quant’altro allora il fenomeno dello stupro è debellato. Complimentoni: una cazzata del genere è più fragorosa di una gara di rutti.  Posso mostrarvi alcuni genuini esempi di addestramento allo stupro,  come ad esempio la cultura del se insisti magari le te la dà,  che si può ammirare  negli infiniti post di facebook che ti dicono quando lei dice no intende sì, quando lei dice fottiti in realtà dice ti amo. Perversione patriarcale pura, feticizzata come romanticismo, quasi sempre eteronormato e praticamente sempre monogamo. Ho il vomito e la diarrea contemporaneamente al solo pensiero, per dire, e questo è solo un esempio.

Negli appelli paraistituzionali contro il femminicidio, ci sono le donne che non sono bianche? non mi pare; le donne trans? nemmeno.  E le sex workers? neppure, quelle son buone solo ad essere salvate da loro stesse. Mi sembra proprio che nel concetto di femminicidio non sia inclusa nessuna che non corrisponda all’ideale di bianchissimo etereo angelo del focolare trucidato dal folle mostro di turno. Bell’ideale fascisteggiante: in tal caso allora, piuttosto che sentir sbattere i piedini di chi strumentalizza felicemente  corpi di donne ammazzate, meglio un bel silenzio. Oppure, meglio ancora,  la caciara di un assemblea. Magari proprio quella di una ipotetica Slutwalk.

Dunque, forse, domandarsi chi mantiene  baracca e  burattine può essere utile, quasi quanto domandarsi perché esistono argomenti intoccabili, tabù: sesso, narrazioni non conformi ai modelli dominanti, centri antiviolenza, sex work, e chi più ne ha, più ne lotti. Fate voi.

1,2,3…stella!

È  da qualche tempo che ormai le Femen hanno acquisito una certa notorietà mediatica e non hanno quindi bisogno di grandi presentazioni. Per chi non ne avesse comunque sentito parlare, trattasi di un movimento femminista nato in Ucraina e che si sta un po’ spargendo per il mondo. Svariate persone si ergono a loro difesa acriticamente, io invece vorrei porre delle questioni.

Le Femen promovuono una retorica neocolonialista.
La tendenza all’universalizzazione di determinati tipi di femminismi, quelli dominanti, come quelli giusti, migliori, gli unici possibili (salvo essere anti-femministe/i) è una cosa che conosciamo fin troppo bene.
In fondo, viviamo in un paese dove o promuovi la visione moralistica della donna, oppure non esisti. Proprio per questo, dovremmo valutare attentamente i linguaggi che usiamo, le pratiche che pratichiamo, e soprattutto, cosa appoggiamo.
Ebbene: le Femen a Parigi, qualche tempo fa, hanno attuato un’azione politica nella quale si sono messe il burqa e dopodiché si sono spogliate invitando, nei loro cartelli, le donne musulmane a fare altrettanto, dicendo loro di “liberarsi”. Ciò è veramente molto problematico, dal momento che innanzitutto si rafforza il colonialismo occidentale che proprio nel paternalismo e nella vittimizzazione delle donne non bianche cerca la sua giustificazione. Una di loro in un intervista addirittura fa l’equazione mentalità araba = mentalità sessista. Quando qualcuno decide a priori cosa è giusto o cosa non è giusto da fare per una donna, noi lo chiamiamo patriarcato. Se lo fanno le Femen, smette forse di essere tale?
Disegnando i limiti di cosa è un “buon” femminismo e di ciò che è un “cattivo” femminismo,  si presta il fianco a chi per l’ennesima volta vuole dividere le ragazze perbene dalle permale, e si usa la stessa retorica razzista che definisce le donne arabe  oppresse dalla sola cultura e dalla sola religione senza dire niente a proposito del capitalismo, del razzismo, dell’imperialismo.
Non a caso sempre le Femen hanno manifestato ad Amburgo nel quartiere a luci rosse.
Questa volta definiscono la prostituzione il fascismo del ventunesimo secolo. Ah sì? E io che pensavo fosse il patriarcato, il capitalismo, gli stati, il razzismo e così via.. c’è una differenza fondamentale tra il criticare totalmente l’imposizione di qualcosa e dire che qualcosa è male in sé. Significa dare per scontato che l’emancipazione debba essere l’ascesa all’integrazione nella società come capo di un azienda, poliziotta o chissà cos’altro, invece di essere la strada di una singola verso la realizzazione (pur limitata dal sistema, e quindi differente dalla liberazione) di sé stessa in qualsiasi cosa che le vada a genio. E quindi, ci si può emancipare benissimo anche scegliendo di fare la sex worker. E sottolineo scegliendo: rientra della definizione di sex work unicamente il lavoro sessuale liberamente scelto e non quindi la tratta, che vivacemente  si combatte, e ogni lavoro sessuale imposto. In tutto questo, le sex workers e le donne arabe hanno qualcosa in comune: l’essere reiette rispetto ad un certo modello di femminismo (che per me non é tale) bianco, borghese, colonialista, moralista e l’essere considerate delle idiote perché con la loro “falsa coscienza” non riescono proprio a vedere l’intrinseca oppressione (?) che invece noi occidentali saremmo in grado di vedere.
Bella fregatura: dicono la stessa cosa proprio in altri lidi, dove però l’oppressione che non si riesce a vedere è quella della minigonna. E allora, evidentemente, l’oppressione in sé non è nella minigonna e neanche nel burqa, e neanche nell’essere o nel non essere una lavoratrice del sesso, bensì nel trovarsi ancora di fronte chi pretende di stabilire cosa sia giusto o sbagliato…. e nelle ingiustizie dello stato di cose presente.