Orgoglio

Qualche giorno fa sulla metropolitana
ho lasciato un bigliettino,
sopra il quale ho scritto orgoglio.
Un uomo in giacca e cravatta, sulla trentina,
prima di sedersi l’ha preso. L’ha letto.
Ha anche riso.
Orgoglio di che?
e comunque, dio odia i froci.
Caro trentenne,
se il tuo dio esistesse
me lo metterebbe in culo
con tutta la virilità gentilmente concessa
dal suo strap-on di fiducia;
sarebbe donna, uomo,
entrambi o nessuno
dei due –
da nonmonogamo capisco bene
che il tuo dio ha milioni e milioni di partner
e non sempre ha del tempo tutto per te.
Sei geloso, capita a tutti, bellezza.
Ma se il tuo dio esistesse, mi adorerebbe:
la linea tra odio e amore è sottile
come i muri dove c’è
un glory hole.

Il sentimentale è politico

Non posso biasimare
alcuni detrattori
anche a me non frega nulla
di una politica che esclude l’amicizia
dei tomi che non battono mai ciglio.
Perché non usare i sentimenti
per rovesciare i governi?
usiamoli per fottere il potere,
e magari anche noi stessi –
per imparare di nuovo a lacrimare,
a urlare, a sbattere sui muri la passione
a sanguinarci, sulle cose. Spaccare tutto.
A disimparare l’ego e innamorarsi delle conseguenze.
E’ ancora possibile essere viscerali,
coinvolgersi nella propria esistenza.
Non possiamo lasciare che qualche lazzaro della dialettica
ci prenda il cuore in ostaggio –
d’ora in poi su ogni servizio pubblico
scriverò che il sentimentale
è politico.

Settecentocinquantatré

Questa città
mi spezza l’osso del collo
sulle banchine della metropolitana
mi gentrifica la mente –
ad ogni porta sbattuta
la incontro con la sua brutta cera
che ogni fottuta estate si scioglie
rivelando una faccia da zombie

il suo affetto è una zona a traffico limitato
che detesto ma respiro a pieni polmoni –
ricoperti di polveri sottili
saturi di indifferenza turisti cartacce
di merda di sindaco sui marciapiedi
di case circondariali e lager
di fascisti in curva sud
e tutto il resto che nessuno rivendica.
Niente di nuovo sul raccordo anulare.

Nun fa’ la stupida stasera
vedi piuttosto di fare la stronza,
fammi inghiottire da qualche buca
fammi arrivare al centro della terra
rifilami una periferia affilata
dritta alla schiena
per non pensarci su
non sopportarti più.

Scrivere viene faticoso e spontaneo

Scrivere viene faticoso e spontaneo
neanche fosse una palla di catarro e malessere
da espettorare con le arterie in fiamme a colpi di tosse acida
è la corrosione autodistruttiva che sminuzza a poco a poco
a partire dal mal di stomaco del tutto psicosomatico
senza sapere se detestare di più il dolore fisico
le emozioni le situazioni che ne sono causa
oppure la voglia di appallottolare le ossa altrui
e gettarle nel cestino assieme alle copie più brutte del solito.
E’ fare gomitoli di catastrofe per non perdere il filo
è perdere il filo e farne una catastrofe
mentre prendono a zampate la sfera emozionale
senza poterla stringere a sè per non far fischiare un fallo di mano
nella pressione sociale della calciopoli.
Le linee rosse cerchiano errori sui fogli e sui polsi,
alcuni si riscrivono, si cicatrizzano, altri cascano nei pozzi
ma se è quello dei desideri o dei sogni irrealizzabili
si può scoprire soltanto a posteriori:
tutto questo pare sia una reazione chimica
fra fogli bianchi penne e neurotrasmettitori.
Non voglio non voglio non voglio schiattare in corpo
di cirrosi empatica
che ormai mi alzo alle cinque del pomeriggio
passando la notte insonne a lacerare la s/volta celeste
con una catenina elettrizzante di fili di cotone
e se mi sveglio la mattina vado a intingere la penna
nella rugiada dei segnali stradali
che ormai ho finito pure l’inchiostro antipatico
che ormai i castelli per aria li voglio in calcestruzzo
che ne ho abbastanza della liberale tolleranza
di incrinarmi le costole.
Ri/parto da me senza biglietto e fogli di via
con una valigia di tetrapak e un profumo da discount.
Non ci sarà nessuno a salutarmi e nemmeno io,
viaggerò seduto sul sedile posteriore
a disegnare sulla condensa del finestrino.
Non aspettatemi.

Non mi curo più di cercare un happy ending

Mi rimbocco le coperte mi leggo le fiabe
ognuna comincia con un se.
Se soltanto non fossimo sopravvissuti al fungo atomico
se soltanto non avessimo tracciato ogni essere vivente,
a penna, sulla cartografia che diremmo insorgente
se solo le nostre conversazioni fossero rimaste fantasie
se solo avessimo utlizzato male il tempo che ticchetta
a non martellare senza pietà la nozione del tempo stesso,
schiacciato fra il lavoro insubordinato e quello che non –
se non canticchiassi mai canzoncine di protesta
dietro le mura di cinta – d’insicurezza.
Se non ci svegliassimo di soprassalto dopo una serie di incubi
senza mostrarci  le nostre cicatrici per leccarcele a vicenda
e lasciarci sullo stendino un po’ soli a farci piovere addosso,
se ci fossero soltanto fan  dei fotogrammi
nati nelle sitcom e mutilati  nei drammi
tra file di popcorn e manciate di poltrone.
Leggo ancora molte fiabe senza fine –
non mi curo più di cercare un happy ending
né di ipotecare il presente.